IWA MONTHLY FOCUS

IL NUOVO YEMEN VERSO L’IMAMATO ZAYDITA E LA SECESSIONE MERIDIONALE?

Tra accuse reciproche di lealtà ai potentati globali e regionali, i movimenti emergenti nel dopo-Saleh stanno intessendo la trama dei nuovi poteri istituzionali. Oppure forse…

di Glauco D’Agostino

Lo Yemen fonda la propria identità su basi assieme tribali e religiose. Le sue 168 tribù rappresentano l’85% della popolazione, essendo radicate nell’etnia araba Qahtani del sud e in quella arabizzata Adnani del nord, centro e ovest del Paese. A sua volta, l’identità religiosa, tradizionalmente molto sentita in uno Stato che basa il proprio sistema giuridico sulla Sharī’a, si compone di due elementi costitutivi:

  • quello sunnita di scuola giuridica shāfi’ita o salafita, seguito dalla maggioranza della popolazione, distribuita a sud e sud-est e lungo le coste del Paese;
  • e quello sciita zaydita (conosciuto come hādawi in Yemen), seguito da circa nove milioni di abitanti (il 35% degli Yemeniti), insediati soprattutto nel nord e nord-ovest dell’attuale territorio nazionale.

Le altre minoranze sono composte da Sciiti Ismailiti e Duodecimani (questi ultimi di provenienza iraqena), Ibaditi dell’Oman e Wahhābiti sauditi, Storicamente vi è stata presente anche una comunità ebraica, in maggioranza emigrata verso lo Stato di Israele dopo la sua formazione nel 1948, mentre è assente una comunità cristiana indigena.

All’attualità, benché a livello popolare le distinzioni tra fedi islamiche non rappresentino una barriera tra le rispettive comunità religiose, lo sviluppo degli eventi politici sta conducendo verso una contrapposizione che molti analisti considerano pericolosa non solo per la stessa esistenza dello Yemen, ma anche per gli equilibri internazionali della Penisola Arabica. Ovviamente, questa apprensione è maggiormente espressa da chi stima un valore la stabilità dei poteri istituzionali scaturiti dagli assetti compromissori tra le potenze mondiali durante il secolo passato.

Old San'a

Lo scorso 16 ottobre nello Yemen centrale milizie legate ad al-Qāʿida si sono scontrate con reparti militari zayditi ḥūthi, provocando dieci vittime; e la settimana precedente a Ṣan‘ā’ (nelle foto sopra due immagini della città vecchia) le stesse hanno compiuto un devastante attentato suicida contro un raduno ḥūthi, che ha ucciso quasi cinquanta persone. Al-Qāʿida nella Penisola Arabica, nata dalla fusione delle formazioni qāʿidiste yemenite e saudite, considera gli ūthi come eretici (in quanto sciiti) e pedine in mano agli Ayatollah, specie da quando il loro leader Ḥuseyn Badr ed-Dīn al-Ḥūthi, assassinato nel 2004 in uno scontro con forze militari governative, fu sospettato di introdurre dall’Iran nuovi metodi di militanza politica. Naturalmente gli Ḥūthi rigettano questo addebito, presentandosi, invece, come forza politica in difesa della libertà di culto e della giustizia sociale.

Sia come sia, è incontrovertibile che gli Ḥūthi siano in piena ascesa politica e che dal 21 settembre abbiano conquistato un potere di controllo sul governo (azione avallata anche dall’accordo proposto dall’inviato dell’ONU), inducendo il Presidente ‘Abd Rabbuh Manṣūr Hādī a cambiare l’esecutivo secondo le loro indicazioni e proponendosi come consiglieri del Presidente per le future scelte.

L’inizio di questa accelerazione politica ha come origine la protesta popolare contro l’ingiunzione del Fondo Monetario Internazionale allo Yemen di tagliare i sussidi al carburante in cambio della concessione di nuovi prestiti. Sullo sfondo, invece, il pluridecennale conflitto tra ribelli zayditi e autorità governative dalla caduta nel 1962 del Regno Mutawakkilita dello Yemen, che aveva determinato la fine dopo mille anni del locale Imamato sciita. E ancora il confronto per procura demandato alle forze locali dalle grandi potenze e dai potentati regionali che storicamente si contendono le sue qualità territoriali:

  • l’utilizzo delle risorse economiche;
  • il controllo sul Mar Rosso e l’Oceano Indiano della navigazione commerciale (soprattutto petrolifera) proveniente da e diretta verso il Canale di Suez;
  • il controllo strategico-militare della regione, considerata come accesso alla Penisola Arabica e ad alcune delle più fondamentali aree geopolitiche del mondo.

Dopo l’arrivo delle milizie ḥūthi, prima nel Governatorato di ‘Amrān l’8 luglio, poi nella capitale Ṣan‘ā’ il 24 agosto in appoggio pacifico alle proteste popolari, e il varo di alcune concessioni governative ritenute insufficienti, il 18 settembre inizia l’escalation militare degli Ḥūthi: il 20 conquistano la TV di Stato e il 21 l’Università Iman e la base della Prima Divisione Corazzata del Generale ‘Alī Mohsen Saleh al-Ahmar, l’uomo che aveva condotto le sei campagne militari contro gli Ḥūthi tra il 2004 e il 2010. A quel punto, sia l’Esercito sia vari ministri dichiarano di non voler contrastare l’iniziativa degli Ḥūthi, evitando di opporre resistenza all’assedio alla Banca Centrale, fino al momento in cui lo stesso Ministero dell’Interno ordina alle proprie unità di cooperare con i ribelli. Una mossa che ha fatto avanzare sospetti sull’esistenza di un accordo occulto tra il Presidente Hādī e il movimento ḥūthi per ridimensionare assetti di potere corrispondenti ad un’altra epoca politica.

Il surge ḥūthi ha una chiara valenza politica contraria ai soggetti dell’establishment statale che, anche dopo l’abbandono nel 2011 del Presidente `Alī ‘Abdullāh Saleh (alla guida della massima istituzione sin dal 1978), ha continuato a gestire di fatto la politica yemenita: tra questi, il Congresso Generale del Popolo, il partito laico nazionalista dello stesso Saleh e che alle ultime elezioni del 2003 aveva ottenuto l’80% dei seggi in Parlamento; il già citato Generale ‘Alī Mohsen Saleh al-Ahmar, vicino ai Fratelli Musulmani e lontano cugino del Presidente deposto; la famiglia al-Ahmar (diversa da quella del precedente), dominatrice della Confederazione tribale settentrionale Hashid, non la più grande, ma senz’altro la più potente delle Confederazioni yemenite, essendo tra l’altro quella di appartenenza dell’ex Presidente Saleh.

Ora, uno degli esiti della Conferenza Nazionale per il Dialogo, iniziata il 18 marzo 2013 e conclusa il 24 gennaio di quest’anno, è stato l’accordo per trasformare lo Yemen in uno Stato federale di sei regioni, quattro nel nord e due nel sud, conferendo per Ṣan‘ā’ lo status speciale di capitale fuori da qualsiasi regione. La Conferenza era parte dell’Iniziativa del Consiglio di Cooperazione del Golfo per tracciare la transizione dei poteri nel dopo-Saleh ed era susseguente alla Risoluzione 2051 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che ne delineava il processo. Sotto la direzione del Presidente Hādī e la supervisione di un rappresentante dell’ONU, la Conferenza aveva ammesso la partecipazione ai lavori non solo del Congresso Generale del Popolo e dei suoi alleati al potere, del pan-arabista Partito Socialista dello Yemen e della nasserita Organizzazione Unionista Popolare, ma anche dell’indipendentista Movimento Meridionale, degli zayditi Ḥūthi e del loro braccio militare Anār Allāh, e dell’islamista Congregazione Yemenita per la Riforma (nota come al-Islah e aderente alla Fratellanza Musulmana).

Tuttavia, il 21 gennaio gli Ḥūthi avevano lasciato la Conferenza a seguito dell’assassinio di un loro componente della Conferenza stessa da parte di elementi salafiti con cui era in corso una guerra nel Governatorato settentrionale di Ṣaʿda. Così facendo, gli Ḥūthi avevano determinato la chiusura della Conferenza, conclusa con la firma del documento a favore di uno Yemen federale, il quale, se attuato, indebolirebbe la situazione di quasi-indipendenza raggiunta dagli Ḥūthi nella città di Ṣaʿda dal 2011, riportando il suo Governatorato sotto il controllo federale, ma lasciandolo privo di sbocchi verso i porti del Mar Rosso. Si spiegherebbe così la mossa preventiva ḥūthi della presa del porto di Ḥudaida a metà ottobre, che potrebbe preludere allo sfondamento verso Bāb al-Mandab e al conseguente controllo della navigazione nello Stretto omonimo.

Alle inquietudini zaydite nel nord, si aggiunge la minaccia secessionista del Movimento Meridionale, il quale si configura come un aggregato di organizzazioni anti-governative eredi delle fazioni che durante la guerra civile del 1994 si opponevano allo storico dominio del nord. Infatti, dopo l’unificazione nel 1990 tra Repubblica Araba dello Yemen (il nord) e la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (il sud) con Presidente Saleh, il nuovo governo era stato stabilito sulla base di un compromesso tra i due partiti dominanti negli Stati prima esistenti, cioè il Congresso Generale del Popolo a nord e il Partito Socialista dello Yemen a sud; ma nel 1993 ʿAlī Sālim al-Bayḍ, Vice Presidente in rappresentanza delle popolazioni meridionali, aveva accusato il governo di marginalizzare il sud ed era tornato ad Aden con propositi di sfida nei confronti di Saleh. Questo aveva spianato la strada alla partecipazione nel governo del partito islamista al-Islah, il cui fondatore, l’ex mujāhid della guerra anti-sovietica in Afghanistan Shaykh ’Abdul Majid az-Zindani, quando a maggio del 1994 era scoppiata la guerra civile, aveva condannato il movimento secessionista del sud come “cospirazione straniera”, sottolineando anche il fatto che la provenienza ideologica marxista di osservanza sovietica degli esponenti governativi del sud dimissionari esigesse una risposta in termini, oltre che militari, di lealtà politica verso i fondamenti islamici dello Stato yemenita. Aden era caduta a luglio di quell’anno e l’ex Presidente al-Bayḍ aveva trovato rifugio nell’Oman, ma la “questione meridionale” in Yemen avrebbe continuato a rappresentare un problema per il governo di Ṣan‘ā’, anche se non più un pericolo. Per lo meno fino ad oggi!

In realtà la crisi del 1994 aveva le sue radici soprattutto in una questione di carattere economico, tuttora irrisolta; e segnatamente nella distribuzione dei proventi derivanti dalle risorse petrolifere. Queste sono localizzate soprattutto al sud, ma i ricavi sono centralizzati, senza che il governo coinvolga le influenti autorità tribali del territorio e soprattutto senza un’equa ripartizione (secondo le rivendicazioni meridionali) in termini di ritorni finanziari per lo sviluppo. A questo si aggiungono pretese politiche riguardanti la libertà di presentare senza restrizioni le opzioni secessioniste patrocinate da alcuni movimenti.

La questione ḥūthi e quella meridionale hanno oggi (e già da un decennio) minato la credibilità, se non la legittimità, di un governo indebolito nelle sue prerogative di rappresentare il potere istituzionale, a favore di un rafforzamento di rappresentatività della società civile, non ultime le sue componenti tradizionali tribali e religiose. Le ragioni possono essere individuate in poche determinanti, quali:

  • una corruzione diffusa in tutti i settori della società, senza che i governi succedutisi (sospettati di essere parte di questa deriva etica) siano riusciti a combatterla;
  • la percezione delle istituzioni come espressione degli interessi sauditi e nord-americani piuttosto che di quelli nazionali, con evidente depauperamento delle risorse e della stessa condizione economica degli Yemeniti e responsabile della crescente disuguaglianza sociale;
  • una politica della sicurezza in passato ritenuta ambigua (e oggi forse in evoluzione), ora compiacente con gli “alleati” USA fino al punto di consentire sul proprio territorio sovrano azioni militari contro al-Qāʿida che ledono il diritto interno e internazionale, ora combattendo militarmente gruppi islamisti e di opposizione che possono rappresentare il vero contraltare politico al potere militare di al-Qāʿida.

Specialmente quest’ultimo punto rende evidente la confusione che, per la verità, non appartiene soltanto al governo yemenita, ma oggi anche agli attori internazionali. Dunque, al-Qāʿida è il nemico e la comunità internazionale vuole combatterla. Gli Zayditi lo fanno, ma, essendo sciiti, potrebbero essere alleati dell’Iran e questo non va bene, anzi per alcuni sono terroristi. Però agli Zayditi si contrappongono i Sauditi, che sono Wahhābiti (come lo sono i cromosomi di al-Qāʿida) ma alleati degli USA. I Fratelli Musulmani di Islah si oppongono agli Zayditi come i Sauditi, ma questi li combattono e sul loro territorio sono illegali, anzi ritenuti funzionali al terrorismo, benché la loro esponente Tawakkol Karman abbia ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 2011. E gli Stati Uniti? Niente paura. Come sempre, a loro spetta dare le pagelle e la patente di “terroristi”. Ora questo, ora quello, secondo le contingenze. E tra un’azione punitiva e un’altra. Ma inutile chiedere loro una strategia di lungo periodo!

La verità è che la rappresentazione del mondo islamico è talvolta molto complessa e non è facile riprodurla secondo gli schemi geo-politici e di alleanze cui sono stati abituati osservatori ed analisti occidentali del XX secolo. Così si spiegano i macroscopici “errori” di valutazione su uomini e organizzazioni compiuti da molti, i titolari delle Cancellerie in primis. Basti citare i casi di Gheddafi, Ṣaddām Ḥusayn, bin Lādin, esaltati in certe fasi della Storia e denigrati in altre; o i Fratelli Musulmani, izb Allāh, amās, alcune volte ritenuti movimenti eversivi o perfino terroristi ed altre volte associati ai governi dei rispettivi Paesi con largo riconoscimento internazionale.

Ritornando allo Yemen, quanti ricordano che l’ex Presidente Saleh è di religione zaydita e, quando gli Ḥūthi sfidarono il suo potere, in un estremo tentativo di salvarsi tentò di contrapporre la sua identità religiosa ad un presunto complotto shāfi’ita? Chi nei 33 anni di potere del Presidente ha avanzato riserve sul suo credo religioso, magari per speculare sul suo spregiudicato operato politico? Perché farlo oggi verso una componente politica zaydita su cui il mondo ha gettato un’ombra politicamente allineata con gli equilibri internazionali?

Gli Zayditi non solo sono oggi parte integrante della società yemenita, ma ne hanno forgiato la Storia e il carattere, cioè le componenti fondamentali della sua identità. Dai tempi del suo primo Imām Hādī ilā al-Ḥaqq (Guida verso la Verità) Yaḥyā bin al-Ḥusayn più di 1100 anni fa, l’Imamato ha rappresentato il riferimento religioso e politico degli Yemeniti (riconosciuto nella sua legittimità anche per via della discendenza degli Imām da ‘Alī ibn Abū Ṭālib tramite il figlio Ḥasan), sebbene non sempre abbia avuto il controllo dell’intero territorio e quasi mai del territorio orientale di Ḥaḍramaut, che rimase fedele al Sunnismo shāfi’ita e al Sufismo. Da questo deriva anche la problematica identitaria del Meridione, il quale porta con sé l’eredità coloniale del Protettorato di Aden (nella cartina sotto la sua estensione prima del 1959).

La questione dell’effettivo esercizio del potere politico degli Imām non più infallibili, posto già dall’VIII secolo dagli Zayditi alla nascita della loro dottrina, è l’aspetto che maggiormente li distingue rispetto agli Sciiti Duodecimani e che li pone in contrapposizione all’Iran degli Ayatollah. È quindi difficile presupporre una convergenza sul piano dottrinale, per quanto non possa essere escluso un avvicinamento sul piano politico. Ma pur avvalorando questa ipotesi, il recupero dell’Imamato anche nella sua dimensione politica (che è stato spesso attribuito alle intenzioni degli Zayditi da parte del governo yemenita) non potrebbe mai essere avallato dalla Guida Suprema dell’Iran, che è il rappresentante dell’Imām nascosto.

In definitiva, l’Islam politico gioca oggi un ruolo fondante nel nuovo Yemen, non ancora stabilizzato dopo le tensioni seguite all’allontanamento di Saleh. Queste sono le principali aree che aggregano i militanti islamisti:

  • i Fratelli Musulmani, rappresentati in Parlamento dalla Congregazione Yemenita per la Riforma e nella società da una forte componente sociale nei settori economico, militare, tribale, oltre che della diplomazia e del mondo della comunicazione. Essendo stati i maggiori alleati del Presidente Hādī e del suo partito, sono entrati in contrasto con lui a seguito della decisione di ammettere gli Ḥūthi nella Conferenza Nazionale per il Dialogo. Dopo la presa della roccaforte hashid di ‘Amrān proprio da parte degli Ḥūthi e il conseguente indebolimento della famiglia Ahmar, sua alleata, il ruolo del partito al-Islah è ora ridimensionato rispetto al passato;
  • gli ūthi, di cui si è ampiamente parlato in precedenza. Non avendo mai colpito obiettivi occidentali, gli analisti non li considerano un pericolo al di fuori dello Yemen. Capeggiati da Shaykh Sayyid ’Abdul-Malik al-Ḥūthi, fratello minore dello storico leader Ḥuseyn Badr ed-Dīn, incolpano il governo del mancato sviluppo e dell’abbandono delle zone abitate dagli Sciiti, che sono tra le più povere del Paese;
  • i Salafiti, articolati principalmente in tre branche: quella che si rifà al movimento filosofico dell’egiziano Shaykh ‘Abdur-Rahman ‘Abdul-Khaliq; quella radicale, ispirata al pensatore di scuola athari Muqbil bin Hādī al-Wadi’i, a sua volta influenzato dal saudita Juhaimān al-ʿUtaibī; e quella jihādista del siriano Shaykh Moḥammed Srour;
  • Jamāʿat Anār ash-Sharīʿa, nata nel 2009 come aggregazione di vari movimenti insurrezionali, tra cui al-Qāʿida nella Penisola Arabica, e attiva soprattutto al sud. Capeggiata dall’Emiro Nāṣir ‘Abd el-Karīm al-Wuhayshi (noto anche come Abū Basir), l’organizzazione tra il 2011 e il 2012 ha mantenuto per oltre un anno il controllo dell’importante città portuale di Zinjibār, sulla costa meridionale, e di altre città-chiave dell’area, tutte dichiarate Emirati islamici.

Le prossime elezioni presidenziali sono in agenda nel prossimo febbraio. Una bella sfida per il Presidente in carica Hādī, in proroga dopo il mandato di due anni ricevuto con la consultazione del 2012! Una sfida non tanto nei confronti di chi avrà il coraggio di competere nel 2015 (sempre che la data sia confermata), quanto piuttosto verso l’esigenza di cambiamento espressa con forza dalle viscere del Paese, fino al punto da evocare la restaurazione dell’Imamato e la minaccia di secessione di una consistente parte del territorio. A queste esigenze la politica dovrà dare delle risposte convincenti, sempre che non si preferisca scegliere la via di un’impossibile continuità con gli assetti del passato. In questo caso sarà il caos, che, certo, il generoso popolo yemenita non merita!

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